Testo di STEFANO BALESTRA
Ma questi sono i vincisgrassi
o le lasagne? Nasce da questa
domanda, da questa battuta, l'idea di scrivere quest’articolo discettando su un
piatto tanto caro ai marchigiani, i vincisgrassi, e le emiliane lasagne, e non
solo.
Il tutto su Facebook, io a Fabriano e il mio interlocutore a
oltre 9000 km di distanza, a Portland,
in Oregon, sulla west coast, la costa occidentale, sull’oceano Pacifico, negli
Stati Uniti. L'interlocutore si chiama Vincenzo
Nunzi che in gioventù, all'inizio degli anni ottanta, poco più che
ventenne, Alberto Bucci volle con se
proveniente dal fiorente vivaio di San Giovanni Valdarno, per costruire la
squadra che poi in due anni avrebbe regalato a Fabriano la serie A1. Era la
stagione 1980-81, quella della promozione in serie A1 sfuggita per un soffio.(Ieri modalità giocatore
con la casacca dell'Honky, numero 4)
La storiografia racconta di come fosse stato l'acquisto più
costoso all'epoca dell’Honky, fu pagato, infatti, 100 milioni di vecchie lire.
Vincenzo, classe 1961, nativo di Pontassieve nel fiorentino, fece un salto
dalla serie C alla serie A2. In realtà Vincenzo, rientrò nell'affare tra San
Giovanni Valdarno e Fabriano che vide approdare in riva al Giano, l'anno
precedente il play Francesco Mannella.
Era un prospetto interessante, veniva da un vivaio di altissimo livello come
quello di San Giovanni Valdarno, che nel 1976 si era fregiato del titolo
italiano Cadetti e scelse Fabriano,
anche se c'era l'interessamento forte nei suoi confronti da parte di Verona. Poi
la carriera di Nunzi dopo Fabriano è stato un susseguirsi di squadre tra
l'Emilia Romagna a Forlì, dove si trasferì nel campionato 1982-83, insieme
all’idolo dei tifosi fabrianesi Leonardo
Sonaglia, la Toscana a Siena e le Marche a Porto Sant’Elpidio e Civitanova.
CHE RICORDI HAI DEL PERIODO DI FABRIANO?
“Abbiamo vissuto, ho avuto la fortuna di vivere un periodo
d'oro per il basket italiano forse non pienamente colto all'epoca. Ho dei
ricordi splendidi, meravigliosi, un grande rapporto con le persone, si viveva
da Dio, anche il gruppo della squadra era cementato. Eravamo tutti amici, il
buonumore accompagnava la squadra, mi ricordo ancora ad esempio le torture del
professor Franco Rosei, il
preparatore atletico della squadra, ma era la giusta conseguenza per gli
obiettivi che volevamo raggiungere. L'obiettivo della squadra andava oltre. La
squadra, il collettivo era quello che contava, Bucci sapeva tenerci sempre su
di giri e avevamo una serenità di spirito che era una delle armi i più. Unico rammarico personale, dal punto di vista
professionale, aver giocato nei due anni a Fabriano poco o niente, ma Alberto Bucci,
grande allenatore, grande persona, aveva
una visione non espansiva nei confronti di noi giovani, preferiva affidarsi ai
più collaudati e navigati elementi con esperienza. La squadra era stata
costruita da Alberto, con un’idea ben precisa… vincere… E così avvenne. Personalmente
ho imparato a stare in un gruppo affiatato, cementato, unito tipo uno per tutti
e tutti per uno, sono rimasto in contatto con Alessandro Gambelli (recentemente scomparso n.d.r.), ma anche con Maurizio Lasi, Massimo Casanova, Mark Crow,
Gianni Tassi con i quali ci sentiamo
spesso e volentieri”.
“Per me Fabriano, per la mia filosofia di vita, era un posto
idilliaco, io amante della natura mi trovavo spesso a passeggiare sul monte
Cucco, oppure sul Catria, oppure essendo amante del cibo anche a Gubbio e zone
limitrofe. Ancora ricordo con grande piacere il calore dei fabrianesi, eravamo
adorati perché avevamo portato l’interesse per il grande basket, in una zona
che era priva di attrazioni cestistiche di alto livello”. All’epoca Fabriano era definita la Cantù dei
poveri, riusciva a portare il 10% della popolazione nelle gare casalinghe e
spesso e volentieri, 500 appassionati assistevano agli allenamenti della band
di Bucci.
“Spesso e volentieri – ricorda Vincenzo- la domenica mattina
dopo la messa facevamo la passeggiata per il corso quando si giocava in casa e
mi ricordo che in più di un'occasione s’incontrava Vittorio Merloni che ti chiedeva come stavi, come andava,
incredibile, veramente incredibile”.
“Una volta erano
ospiti i miei genitori e a mio padre capitò di parlare con il signor Vittorio Merloni e ne rimase
letteralmente entusiasta, non capitava tutti i giorni di parlare a tu per tu
con quello che era all’epoca il presidente di Confindustria”.
Vincenzo oltre al basket aveva un'altra passione e un altro
talento che era quello della cucina. Cosicché nel 2014 si trasferì negli Stati
Uniti d'America dapprima a Dallas e poi a Portland, dove ha lavorato in ristoranti
gestiti da italiani. Poi ecco il lockdown per il covid, durante la pandemia
Vincenzo in quei periodi che comunque il governo americano aveva supportato
economicamente, con dei ristori efficaci, decise di cambiare radicalmente il
proprio mondo del lavoro e di mettersi in proprio. Lavorando per privati, per
aziende, ma anche per chi vuole ed ha piacere di capire anche la cucina
italiana fino in fondo. Recentemente è stato invitato in una scuola, per
raccontare la cucina italiana.
Ed ecco che anche qui riaffiorano i ricordi dei periodi
passati a Fabriano e nel centro Italia. “A Fabriano mangiavo spesso al
ristorante La Marchigiana, esiste ancora? facevano dei vincisgrassi che me li
sogno ancora la notte... Così come mi sogno il ciauscolo, ma è impossibile da
importare in America per le restrizioni profonde. Vorrei provare a rifarlo per
conto mio, così come faccio per le salsicce toscane, ma non è semplice trovare
gli ingredienti, cercherò di farlo aggiustando i sapori”.
“Ma le cose che cerco di fare apprezzare agli americani sono anche
il coniglio in porchetta, la crescia sfogliata di Urbino, la crescia con il
formaggio, i ravioli alla marchigiana, il pesce come ho imparato ad apprezzare
a Civitanova e a Porto Sant'Elpidio con il padellone e la matriciana,
rivisitata e che ho chiamato con il nome de l' amarchigiana”.
“Un lavoro costante e quotidiano, per cercare di far capire
chi siamo e cosa è la nostra cucina, anche se non è semplice da parte degli americani
capire certi piatti. D'altronde Portland è riconosciuta come la città americana
del cibo, della gastronomia, tanto da essere gemellata dal 2003 con Bologna e
nei supermercati di questa metropoli il cui conglomerato urbano raggiunge complessivamente
i 3 milioni di anime, si possono trovare abbastanza facilmente anche dei vini
italiani.
“La cucina che propongo qui in America, è connessa con la mia
esperienza "baskettara" e in parte "spirituale"
(Assisi/Umbria)....quel Crinale, dove si incontrano, Romagna, Toscana, Umbria e
Marche....”
In pratica un ambasciatore, un divulgatore della cucina
italiana e di quella fabrianese e marchigiana in America.(Oggi modalità Chef....)
“Io e mia moglie Deborah, abbiamo in mente di fare un lungo
viaggio in Italia, verso ottobre di quest’anno, vorrei fargli conoscere anche i
luoghi in cui ho sviluppato la mia carriera di giocatore. E sicuramente una
puntatina la dedicherò anche a Fabriano”.